Il card. Martini, inaugurando una chiesa costruita dal nostro progettista, Mauro Galantino, disse che le chiese non devono costituire una dichiarazione arrogante del credo o pretendere la centralità della chiesa nella città, ma hanno la vocazione di rappresentare in modo chiaro il servizio che la chiesa offre a tutti con la propria testimonianza nell’ambito della ricerca del senso.

Ha risposto a questa prospettiva la chiesa di Gesù Redentore?

Non è un caso che il suo simbolo “più potente sia forse l’ellisse ai lati della quale si dispone l’assemblea, rivolta all’altare e all’ambone ma anche all’altra metà di sé stessa. E affacciata su uno spazio vuoto, di attesa, e policentrico, consapevolmente concepito come espressione della ricerca di un senso plurale che si sostituisce all’unità di senso” (Massimo Bulgarelli, Il complesso parrocchiale del Gesù Redentore a Modena, in Casabella di ottobre 2008).

L’aspetto esterno della chiesa è sobrio, quasi silenzioso, con piani lineari di colore bianco dalla bellezza semplice. La parrocchia offre alla città una piazza- sagrato che aggrega e interroga. La facciata della chiesa è rivolta a questa piazza, non alla strada, per dare molto a chi si ferma e per non imporre nulla a chi per il viale su cui ci si affaccia, Via Leonardo da Vinci, passa in auto. Ma la comunità laica modenese cosa ha detto?

  1. Percezione pubblica dell’iniziativa costruttiva

Nel quartiere la notizia della costruzione, all’inizio, sollevò un interesse limitato che crebbe di colpo con lo scavo e con la fabbrica dalle proporzioni ragguardevoli, alto in media 10 metri, lungo 130 e largo 35. La domanda sul senso della costruzione non si è fatta attendere così come le obiezioni sull’impegno economico. Che del centro parrocchiale faccia parte una casa di accoglienza per quindici persone residenti e per 30 ospiti diurni ha sviluppato la percezione del servizio alla città.

la pianta del complesso parrocchiale

La città ha partecipato col finanziamento, mentre con l’amministrazione comunale il dialogo è stato serrato sia per la costruzione sia per l’impostazione sociale. Oggi, a un anno dalla Dedicazione, i pareri positivi sono aumentati, perché l’edificio è di qualità e perché –soprattutto l’interno– presenta una grandezza armonica e rinvii paragonabili al canto liturgico. Piacciono, in particolare, gli ambienti interni mentre, all’esterno, la percezione di un’ulteriore interrogazione rispetto alle attese, crea distinguo e rifiuti.

Sta cambiando la figura e l’anima della città. Essa non è più guidata dalla logica dei luoghi e delle appartenenze, ma da quella dei flussi e delle funzioni. Una città non si sostiene da sola senza essere in rete, senza intercettare la grandi correnti di flusso, senza fare i conti con la mescolanza di popolazioni diverse. Si creano nelle città luoghi e flussi che hanno poco a che fare con l’identità tradizionale. Le città si attraversano, non si vivono, come dice spesso, sulla rivista Il Regno, padre Lorenzo Prezzi, che mi ha offerto questi pensieri.

  1. Nella tradizione

La chiesa nasce nella tradizione del «date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» e, più indietro, in quella ebraica che sviluppa, nell’ambiente antico, segnato dal Dio contenuto nella città, la convinzione che la città sia proprietà di Dio e che Dio doni alla città una presenza che infonde fiducia e speranza.
Dopo la morte-risurrezione di Gesù, non vi è nessun luogo né alcun costruzione che possa assicurare la presenza di Dio, né monte né tempio, perché Dio va in cerca dei suoi adoratori dove si riuniscono nella chiesa. La persona di Gesù è il luogo della definitiva manifestazione del Padre agli uomini e al creato e l’unico luogo della manifestazione dei figli e delle creature a lui.
L’intera storia della fede cristiana ha costantemente inventato edifici in cui fare memoria del Signore risorto per custodire e trasmettere, nella consapevole insufficienza delle strutture, il mistero che in esse è evocato. Per continuare a ricercare il mistero dell’identità di Gesù nella convinzione di essere sempre per via, di non poterlo mai indicare come una questione chiusa né tanto meno come un possesso. Parlare della chiesa ci obbliga a parlare della nostra fede, della nostra comunità e della città, ma soprattutto a parlare di Gesù.

  1. I visitatori. Tante ricerche, alcune moderne

I commenti dei visitatori vorrebbero più riconoscibile la chiesa; non sanno spiegare ma bisogna ascoltarli. Di per sé già l’attitudine cristiana dei percorsi dovrebbe essere riconoscibile: dopo aver parcheggiato, occorre camminare a piedi per raggiungere la chiesa e si entra nel suo primo ambiente, il sagrato, uno spazio pubblico e profano all’inizio che man mano diventa uno spazio sacro: accogliente, silenzioso, ordinato e ben proporzionato. Il portale dice Cristo Gesù, vivo accanto a Dio, l’unico Tempio della comunità cristiana, il segno che sollecita discretamente la decisione.

vista dall'alto

 

Quando si vuol entrare, si passa per il nartece, l’ambiente dell’attuazione graduale della decisione della fede dubbiosa, dove la luce zenitale non fa sentire al chiuso, perché “si entra, si esce e si trova pascolo” (Giovanni 10), e dove la panca semplicissima dell’attesa fa pensare: “credo, aiutami nella mia incredulità” (Marco 9). Nel passare (come dice don Giuliano Zanchi) bisogna focalizzare le persone e sentire i legami. Dentro, poi, l’acqua della fontana del battesimo, dice la vitalità della salvezza, la freschezza del mistero e la concretezza dello Spirito, mentre l’ambone e l’altare evocano la volontà di Gesù di collegarsi alle persone. La comunità radunata e in festa aiuta a vivere nell’amore questi passaggi e a ritornare pieni di gioia.

Vista dall'ingresso

La modernità ha una verità per protesta (diceva Italo Mancini), mentre il postmoderno esclude la verità. A Gesù Redentore una linea c’è e non è stata inquinata dalla moda di galleggiare in tutte le direzioni e di ballare da soli. Il rischio sarebbe piuttosto l’influsso delle sirene gnostiche: l’arte e la moda della sottrazione, le dottrine apodittiche o sottili, il sacro dato dalle cifre geometriche. Invece all’interno la nostra è una chiesa in cui molti elementi parlano ai visitatori il linguaggio, apprezzato, della disponibilità.

  1. Il servizio della disponibilità e della testimonianza

     

Questo linguaggio è una veicolo importante del sì di Dio all’uomo, cioè del servizio che alla ricerca di senso degli uomini viene come dono. Non siamo noi ad ammirare Dio ma è lui che dona a noi lo spazio, il tempo, la memoria, la gratuità della Trinità. Non siamo noi a fare una casa a Dio, ma è la Trinità che ci accompagna discretamente. Sentiamo la nostra chiesa un tratto del sì di Dio all’uomo.

La chiesa italiana al convegno di Verona dell’ottobre 2006 ha giocato le proprie energie limitate nella missione negli ambiti della vita. La figura di questa chiesa suggerisce che la liturgia è cosa santa, davvero cruciale e che nulla ad essa manca mentre essa tutto deve svolgere al di fuori di sé, coinvolgendo i credenti nella carità perché nella periferia sia salvato ciò che è marginale, come a Gerusalemme nella Passione.

Una delle virtù più richieste dall’attuale situazione è senz’altro la saldezza. Le chiese nelle città e nei paesi sono elementi di saldezza, riferimenti validi, segnali di cose tradizionali e grandi, come un grande sasso in una piana erbosa o un lago che riflette i contorni e i colori di ciò che vive attorno. Saldezza non è imposizione ma chiarezza. Siamo richiesti dell’ascolto partecipe e della testimonianza della speranza. I compiti che gli incontri dei visitatori ci fanno focalizzare sono questi. Ma chi può anche solo tentare senza una grande saldezza personale?

la celebrazione
  1. Collaborare rispondendo alla domanda di identità nel rispetto dell’alterità

Mentre alcuni vorrebbero che l’identità della chiesa fosse il contenuto generatore dell’architettura, rispondendo mimeticamente alla domanda di identità religiosa, noi abbiamo portato la cultura architettonica dentro la liturgia e l’architetto ha accolto la proposta dell’assemblea liturgica di matrice siriaca come rispondente a quello che ambedue sentivamo essere la chiesa. Qui la più grande importanza hanno i “memoriali” (non i “monumenti”) della parola e della cena, come anche l’ellisse centrale disponibile.

Mentre altri chiedono un rispetto dell’alterità che richiede una città delle funzioni fino alla perdita della vocazione della comunità, committente e progettista hanno messo in collegamento le proprie domande implicite sincere. Sulle domande esplicite c’è stata forte dialettica, invece.

E’ arricchente intendersi su un’etica della città e dialogare anche sui fini, con ingredienti indispensabili l’empatia, l’ispirazione e il coraggio. In buoni termini, il nostro complesso testimonia che oggi la solidarietà non la si trova, la si persegue, la socialità non la si eredita, la si costruisce. Che l’esperienza sia paradigmatica rispetto alla costruzione, credo che lo si possa dire. Con molti ringraziamenti a don Giancarlo Santi che ha sostenuto e chiarito in più passaggi il mio compito.

Resta il compito di costruire comunità sulla base di quanto ricevuto.

 

* PONGILUPPI MARCO, Chiesa e legami umani, in DIANICH SEVERINO et. al., BOSELLI GOFFREDO ed., Chiesa e città. Atti del VII Convegno liturgico internazionale. Bose, 4-6 giugno 2009, Edizioni Qiqajon, Bose 2010, pagine 148-152.